IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL FRIULI-VENEZIA GIULIA 
                            Sezione Prima 
 
    ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 12 del 2018, proposto da  R.  P.,  rappresentato  e
difeso  dagli  avvocati  Antonio  Malattia  e  Giuseppe  Sbisa',  con
domicilio digitale come da pec da Registri di giustizia  e  domicilio
eletto presso lo studio del secondo in Trieste, via Donota n. 3; 
    Contro  Ministero  dell'interno,  in  persona  del  Ministro  pro
tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura  distrettuale
dello Stato di Trieste, presso la  quale  e',  del  pari,  per  legge
domiciliato in Trieste, piazza Dalmazia n. 3; 
    per l'annullamento, previa sospensione cautelare: 
        del provvedimento del  Questore  di  Pordenone  cat.  6D/2017
DIV.P.A.S. del 23 novembre 2017, con  il  quale  e'  stata  rigettata
l'istanza  di  rinnovo  della  licenza  n.  21226/96  per  esercitare
l'industria  della  riparazione  delle  armi  comuni  presentata  dal
ricorrente ed e' stata ordinata l'immediata cessazione dell'industria
di riparazione delle armi comuni in atto e la  chiusura  al  pubblico
dell'attivita' in argomento; 
        di  tutti  gli  atti  presupposti,  preparatori,  connessi  e
consequenziali, incluso il preavviso di rigetto; 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visto  l'atto  di  costituzione   in   giudizio   del   Ministero
dell'interno; 
    Relatore nell'udienza pubblica  del  giorno  23  maggio  2018  la
dott.ssa Manuela Sinigoi e  uditi  per  le  parti  i  difensori  come
specificato nel verbale; 
La vicenda fattuale. 
    Il  ricorrente  ha   impugnato   innanzi   a   questo   Tribunale
amministrativo  regionale  il  decreto  in   epigrafe   compiutamente
indicato, con cui il Questore di Pordenone gli ha denegato il rinnovo
della licenza rilasciatagli nell'anno 1996 per esercitare l'industria
della riparazione delle armi comuni e ordinato l'immediata cessazione
dell'industria in atto e  la  chiusura  al  pubblico  della  relativa
attivita'. 
    Ai fini che qui interessano, espone d'essere stato condannato dal
Tribunale di Pordenone per il reato di furto (articoli 624 e 625 n. 2
c.p.) e invasione di terreni (art. 633 c.p.) alla pena di  otto  mesi
di reclusione e 300,00 euro di multa  (pena  dichiarata  estinta  per
effetto di indulto)  in  relazione  ai  fatti  commessi  in  data  28
dicembre 2004 in Frisanco, giusta sentenza n. 63/08  del  4  febbraio
2008, poi confermata dalla Corte d'appello di Trieste con sentenza n.
708 del 24 agosto 2010. 
    Espone, inoltre, che la licenza posseduta  gli  e'  sempre  stata
rinnovata di anno in anno sino  al  2011  e,  divenuta  triennale  la
durata della relativa validita',  ha  ottenuto,  poi,  il  successivo
rinnovo nell'anno 2014. 
    Parallelamente, chiesta e ottenuta la  riabilitazione  (ordinanza
del Tribunale di sorveglianza di Trieste in data 17  novembre  2015),
ha ottenuto anche il rilascio di una nuova licenza di porto di fucile
per uso caccia (il rilascio originario  risale  all'11  marzo  2009),
sebbene il preavviso di diniego ricevuto  in  corso  di  procedimento
avesse indotto a temere un diverso epilogo. In tal caso, il  Questore
ha apprezzato, pero', in  senso  favorevole  all'interessato  proprio
l'intervenuta riabilitazione. 
    Cio' nonostante, in data 21 giugno 2017 gli e'  stato  notificato
un preavviso di rigetto, col quale gli e'  stato  comunicato  che  la
condanna riportata nel 2008 era da considerarsi ostativa  al  rinnovo
della licenza per esercitare l'industria della riparazione delle armi
comuni richiesto con istanza in data 9 maggio 2017. 
    A  nulla  e'  valso  il  contributo  procedimentale  offerto  dal
medesimo, dato che il Questore, con decreto in data 23 novembre 2017,
gli ha denegato, in via  definitiva,  il  rinnovo  della  licenza  in
questione, detenuta sin dall'anno 1996, e cio' sulla scorta di quanto
stabilito dall'art. 43 del T.U.L.P.S. («... non puo' essere conceduta
la licenza di portare armi: a)  a  chi  ha  riportato  condanna  alla
reclusione per delitti non colposi contro  le  persone  commessi  con
violenza, ovvero per furto...;»), in relazione all'art. 9,  comma  1,
della legge n. 110/1975 («Oltre quanto  stabilito  dall'art.  11  del
testo unico delle leggi di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773,
e successive modificazioni, le autorizzazioni di  polizia  prescritte
per la fabbricazione,  la  raccolta,  il  commercio,  l'importazione,
l'esportazione, la collezione,  il  deposito,  la  riparazione  e  il
trasporto di armi di qualsiasi tipo  non  possono  essere  rilasciate
alle persone che si trovino nelle condizioni  indicate  nell'art.  43
dello stesso  testo  unico.  ...»),  dalla  circolare  del  Ministero
dell'interno in data 2 agosto 2016, che  ha  recepito  il  parere  n.
01620/2016 della Prima Sezione del Consiglio  di  Stato,  secondo  il
quale  la  riabilitazione  «non  ha  rilievo  su  altre   conseguenze
giuridiche delle condanne» poiche' «gli effetti della  riabilitazione
si esauriscono nell'ambito dell'applicazione della legge penale salvo
diverse, specifiche disposizioni di legge»  e,  inoltre,  «a  chi  e'
stato condannato per i reati previsti come preclusivi dal citato art.
43 non puo' essere rilasciata, e deve essere revocata  se  sia  stata
rilasciata, la licenza di porto d'armi senza che possa  aver  rilievo
la    conseguita    riabilitazione»,    e    dalla    circolare    n.
557/PAS/U/012843/10100.A(1) del 31 agosto 2017, secondo la quale «...
la sentenza di riabilitazione non implica la necessita' di fare luogo
ad ulteriori valutazioni nel caso in cui essa si riferisca a condanne
a pena detentiva per i delitti  di  cui  all'art.  43,  primo  comma,
T.U.L.P.S..  In  tal  caso,  l'Autorita'  e'  titolare  in  linea  di
principio di un potere vincolato, per  cui  una  volta  accertata  la
sussistenza di una pronuncia di  condanna  per  taluno  dei  predetti
delitti  occorrera'  necessariamente  fare  luogo  al   diniego   del
provvedimento». 
    L'interessato ha, quindi, gravato il provvedimento lesivo innanzi
a questo Tribunale, denunciandone l'illegittimita'  per  «Eccesso  di
potere per erronea  interpretazione  della  circolare  del  Ministero
dell'interno   n.   557/leg./222.00   del   2   agosto   2016,    per
contraddittorieta'  con  precedente  determinazione  e   difetto   di
motivazione nonche' violazione di legge (art. 21-nonies  della  legge
n.  241/1990)  e  dei  principi  in  materia  di  autotutela»  e  per
«Violazione   dei   principi   di   uguaglianza,   ragionevolezza   e
proporzionalita' in una applicazione non costituzionalmente orientata
dall'art. 43 del T.U.LP.S.», dando atto, in particolare in  relazione
al I motivo di gravame, dell'orientamento giurisprudenziale  definito
«evolutivo», del quale sarebbero espressione  la  sentenza  del  TRGA
Trento n. 341/2016 (seguita  dalla  n.  287/2017),  la  sentenza  del
Tribunale amministrativo regionale Piemonte, I, 11 gennaio  2018,  n.
69 e la sentenza del Consiglio di Stato, III, 17  novembre  2017,  n.
5313, a  mente  del  quale  «la  pubblica  amministrazione  non  puo'
considerare le condanne a guisa di fatto  preclusivo  immodificabile,
giacche' siffatta soggezione perpetua appare, in questo come in altri
campi dell'esperienza giuridica, estranea  all'ordinamento  positivo.
Ove fosse consentita alla pubblica amministrazione, sempre e comunque
(e, dunque, senza badare all'evoluzione d'ogni singola vicenda),  una
motivazione di rigetto completamente avulsa dalla realta'  attuale  e
condizionata da condotte risalenti ad un passato ormai remoto  e  non
piu' riprodotto, la norma risulterebbe, nella  sua  irragionevolezza,
di   dubbia    legittimita'    costituzionale»    (cosi'    Tribunale
amministrativo regionale Piemonte n. 69/2018 cit.). 
    Non ha, in ogni caso, nemmeno trascurato di evidenziare che,  nel
caso specifico, «la Questura, rinnovandogli altra licenza in  materia
di armi, aveva gia' compiuto nel 2015 una esplicita  riconsiderazione
dell'affidabilita' della persona, che oggi  non  puo'  pretendere  di
sovvertire   solo    a    causa    di    sopravvenuti    orientamenti
giurisprudenziali e non  perche'  nel  frattempo  siano  sopravvenuti
fatti nuovi che giustifichino una revisione del giudizio. 
    E' di tutta evidenza che nel 2015 il Questore aveva consumato  il
potere  di   rideterminarsi,   avendo   adottato   motivatamente   un
provvedimento confermativo della affidabilita' e della  meritevolezza
del ricorrente, dopo aver inizialmente  manifestato  l'intenzione  di
negare il rinnovo della  licenza  in  considerazione  del  precedente
penale: un tanto non puo' ritenersi adesso privo di  rilevanza  e  di
effetti preclusivi, alla stessa  stregua  di  cio'  che  si  verifica
nell'altro caso considerato dalla circolare ministeriale  in  cui  il
provvedimento favorevole e' stato adottato a seguito di una pronuncia
giurisdizionale...». 
    Con il secondo motivo  di  impugnazione  ha  adombrato,  inoltre,
profili di incostituzionalita' dell'art. 43 T.U.L.P.S.. 
    Il Ministero dell'interno si e' costituito  in  giudizio  con  il
patrocinio dell'Avvocatura distrettuale dello Stato  di  Trieste  per
resistere al ricorso e invocarne la reiezione. 
    Accordata al ricorrente la misura cautelare invocata (ord.  caut.
n. 17 in data 8 febbraio 2018), la causa e' stata quindi  chiamata  e
discussa alla pubblica udienza del 23 maggio 2018. 
    All'esito della  Camera  di  consiglio  che  ne  e'  seguita,  il
Tribunale amministrativo regionale per il  Friuli-Venezia  Giulia,  I
Sezione, ha pronunciato la seguente ordinanza. 
    Il Tribunale  ritiene,  invero,  sussistenti  i  presupposti  per
sollevare  d'ufficio   questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 43 del T.U.L.P.S, nella parte in cui, nello  stabilire  che
«... non puo' essere conceduta la licenza di portare armi: a)  a  chi
ha riportato condanna alla reclusione ... per furto...», non consente
di apprezzare la risalenza nel tempo del fatto costituente reato,  la
sua concreta e attuale gravita' anche con riguardo alla lesivita' del
bene giuridico protetto e la successiva condotta di vita  tenuta  dal
soggetto interessato, rendendo,  peraltro,  oltremodo  violativa  dei
principi di eguaglianza, proporzionalita'  e  ragionevolezza  di  cui
all'art. 3  della  Costituzione  l'automatica  ostativita'  anche  in
confronto a condotte analoghe, commesse da altri  soggetti  in  tempi
piu'  recenti,  che,  sotto  il  profilo  penale,  hanno   avuto   la
possibilita' di fruire del  piu'  favorevole  trattamento  assicurato
dall'art. 131-bis del codice penale  ed  evitato,  sotto  il  profilo
amministrativo, perpetue conseguenze pregiudizievoli, immotivatamente
limitative della libera estrinsecazione della propria personalita'. 
Rilevanza della questione. 
    La questione e' rilevante per le seguenti ragioni. 
    Al fine del decidere viene in rilievo l'art. 43 del regio decreto
n. 773/1931, in  relazione  all'art.  9,  comma  1,  della  legge  n.
110/1975, che cosi recita «Oltre a quanto e' stabilito  dall'art.  11
non puo' essere conceduta la licenza di portare armi: 
        a) a chi ha riportato condanna alla  reclusione  per  delitti
non colposi contro le  persone  commessi  con  violenza,  ovvero  per
furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di  rapina  o
di estorsione; 
        b) a chi ha  riportato  condanna  a  pena  restrittiva  della
liberta' personale per violenza  o  resistenza  all'autorita'  o  per
delitti  contro  la  personalita'  dello  Stato  o  contro   l'ordine
pubblico; 
        c) a chi ha riportato condanna per  diserzione  in  tempo  di
guerra, anche se amnistiato, o per porto abusivo di armi. 
    La licenza puo' essere ricusata ai condannati per delitto diverso
da quelli sopra menzionati e a chi non  puo'  provare  la  sua  buona
condotta o non da' affidamento di non abusare delle armi». 
    La fattispecie in esame ricade nell'ambito  di  applicazione  del
disposto di cui alla lettera a) della norma soprariportata e, secondo
il suo tenore letterale, il ricorso dovrebbe essere respinto  poiche'
il ricorrente ha riportato una condanna alla reclusione per furto. 
    Laddove venisse, tuttavia, accolta la questione  di  legittimita'
costituzionale dianzi sinteticamente prospettata il presente giudizio
avrebbe un esito diverso, in quanto, per l'appunto,  la  riconosciuta
incostituzionalita' in parte qua della norma oggetto di  applicazione
determinerebbe l'annullamento del diniego di  rinnovo  della  licenza
per  esercitare  l'industria  della  riparazione  delle  armi  comuni
opposto  al  ricorrente  quale  effetto  automatico  della   condanna
riportata. 
    Il Collegio  ritiene  opportuno  dare  preliminarmente  atto  dei
difformi orientamenti espressi in tema di  interpretazione  dell'art.
43 T.U.L.P.S. dal giudice di appello nella sentenza  Cons.  St,  sez.
III, 14 febbraio 2017, n. 658 (resa  in  riforma  della  sentenza  n.
484/2016 del Tribunale amministrativo  regionale  Piemonte)  e  nella
sentenza della stessa Terza Sezione 17 novembre 2017 n. 5313, (resa a
conferma  della  sentenza  del  Tribunale  amministrativo   regionale
Piemonte n. 839/2016). 
    Nella  prima   pronuncia   -   come   ricordato   dal   Tribunale
amministrativo regionale Piemonte  in  recente  sentenza  11  gennaio
2018, n. 69 - «il Consiglio di Stato ha affermato che la condanna per
uno dei reati indicati all'art. 43, primo comma, lettere a),  b),  c)
genera   una   preclusione   assoluta   a    essere    titolare    di
un'autorizzazione al porto di  arma  e  vincola  l'Amministrazione  a
negare  o  revocare  il  porto  dell'arma.  Si  tratta  di   speciale
incapacita' ex lege al rilascio o  al  rinnovo,  tale  da  non  poter
essere  superata  sic  et  simpliciter  dalla   mera   riabilitazione
dell'interessato, da cui discende  l'impossibilita'  indefettibile  e
non modificabile che il futuro comportamento dell'interessato  superi
la inaffidabilita' sull'uso dell'arma in possesso. 
    Nella pronuncia successiva, il Giudice di  appello  ha  sostenuto
che l'applicazione dell'art. 43  T.U.L.P.S.  non  possa  avvenire  in
violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzione  di  rango
costituzionale e che  debba  essere  privilegiata  un'interpretazione
ideologica della norma conforme ai principi  costituzionali,  con  la
conseguenza  che   l'Amministrazione,   nel   compiere   la   propria
complessiva valutazione in ordine alla affidabilita' nel possesso  di
armi, non possa non tener conto  anche  della  sussistenza  di  altri
elementi,    che    denotano    favorevolmente    la     personalita'
dell'interessato con carattere di attualita'. Cio'  comporta  che  la
preclusione prevista dall'art. 43 T.U.L.P.S. per il possesso di  armi
e munizioni in capo ai  soggetti,  che  abbiano  subito  le  indicate
tipologie   di   condanne,   non   possa   essere   automatica,   ove
ragionevolmente   altri   elementi   attuali    della    personalita'
dell'interessato, quale il lungo tempo intercorso rispetto  all'epoca
del commesso reato senza la commissione di ulteriori illeciti  penali
(corroborato  nelle  sue  positive  implicazioni  dalla   intervenuta
riabilitazione), depongano per  lo  stabile  ripristino  in  capo  al
soggetto medesimo delle richieste  condizioni  di  affidabilita'  nel
possesso di armi in corrispondenza ad  una  rinnovata  e  consolidata
integrazione nel sano contesto socio economico in presenza di  indizi
univoci e concordanti in tale senso». 
    Il contrasto giurisprudenziale non e', ad oggi, ancora sopito. 
    Vi sono, infatti, pronunce (tra le piu' recenti  C.d.S.,  III,  7
giugno 2018,  n.  3435),  che,  secondo  una  fedele  interpretazione
letterale della  norma  che  viene  in  rilievo,  hanno  ritenuto  di
aderire, per l'appunto, all'orientamento tradizionale, su cui poggia,
sotto il profilo motivazionale,  il  diniego  opposto  al  ricorrente
(ovvero in senso conforme al parere del Consiglio di Stato,  Sez.  I,
11 luglio 2016, n. 1620) e altre (come quella  della  I  sezione  del
Tribunale amministrativo regionale Piemonte da cui e' stata tratta la
su riportata «sintesi» degli opposti orientamenti o la  piu'  recente
n. 648 del 25 maggio 2018; T.R.G.A. Trento, sezione unica, 24 ottobre
2017, n. 287;  C.d.S.,  III,  1°  giugno  2018,  n.  3303,  che,  pur
affrontando la  particolare  ipotesi  dell'esercizio  del  potere  di
autotutela, lascia pur sempre spazio ad  apprezzamenti  di  carattere
discrezionale anche a  fronte  della  sussistenza  di  un  precedente
ostativo), che, invocando talvolta anche i principi di ragionevolezza
e  di  proporzione  di  rango  costituzionale,  vi   si   discostano,
ritenendo, per l'appunto  imprescindibili  valutazioni  di  carattere
discrezionale, laddove, in particolare, la  condanna  «ostativa»  sia
assai risalente nel  tempo  e  sia,  nel  frattempo,  intervenuta  la
riabilitazione. 
    Il Collegio -  che  non  ritiene  di  poter  aderire  tout  court
all'orientamento  cd.  «evolutivo»,   ostandovi,   allo   stato,   la
formulazione letterale della norma di cui e' stata fatta applicazione
nel caso specifico, ma, al contempo, di  non  poter  nemmeno  seguire
acriticamente  l'orientamento  tradizionale,   che   non   condivide,
laddove,  per  l'appunto,  «perpetua»  gli   effetti   amministrativi
pregiudizievoli  delle  condanne   contemplate   dall'art.   43   del
T.U.L.P.S., senza tenere in alcun modo conto della loro risalenza nel
tempo, della loro  concreta  e  attuale  idoneita'  a  sorreggere  il
diniego al rilascio del titolo autorizzativo  richiesto  (rectius  il
giudizio di pericolosita' che se ne puo' trarre in relazione al  bene
giuridico oggetto di tutela) e del reale e  individuale  percorso  di
vita effettuato, nel frattempo, dai soggetti che le hanno subite,  in
quanto siffatta soggezione appare, in  questo  come  in  altri  campi
dell'esperienza giuridica, estranea all'ordinamento positivo -  altra
soluzione non individua, pertanto, che quella di sottoporre la  norma
in questione al vaglio di costituzionalita' per le argomentazioni che
si appresta ad esporre. 
    Rammenta, infatti, che il giudice remittente ha  la  possibilita'
di rivolgersi alla  Corte  costituzionale  allorquando  si  trova  di
fronte all'alternativa di  adeguarsi  a  un'interpretazione  che  non
condivide o di assumere una  pronuncia  in  contrasto,  probabilmente
destinata ad essere riformata, come induce a  supporre  l'ultimissima
pronuncia in materia emessa  dal  Consiglio  di  Stato  (sentenza  n.
3435/2018). 
Sulla non manifesta infondatezza della questione. 
    Il Collegio condivide, innanzitutto, le  puntuali  argomentazioni
svolte dal Tribunale amministrativo regionale Toscana, sez.  II,  con
ordinanza in data 16 gennaio 2018,  n.  56,  laddove,  nel  sollevare
analoga questione di legittimita' costituzionale, ha  osservato,  con
riguardo al  profilo  della  ritenuta  violazione  del  principio  di
ragionevolezza  di  cui  all'art.  3  della  Costituzione,  che   «la
ragionevolezza delle leggi e' corollario del principio di uguaglianza
ed esige che le  disposizioni  normative  contenute  in  atti  aventi
valore di legge  siano  adeguate,  o  congruenti,  rispetto  al  fine
perseguito dal legislatore. Si ha  dunque  violazione  del  principio
laddove  si  riscontri  una   contraddizione   all'interno   di   una
disposizione legislativa, oppure tra essa ed  il  pubblico  interesse
perseguito che costituisce un  limite  al  potere  discrezionale  del
legislatore, impedendone un esercizio arbitrario (...)  Nel  caso  di
specie, il dubbio di costituzionalita' riguarda una  norma  la  quale
pone un divieto assoluto ed automatico di concedere il porto d'armi a
soggetti che sono stati condannati alla reclusione per un  reato  (il
furto) che  e'  estraneo  all'uso  delle  stesse  e  non  incide,  in
astratto, sul loro utilizzo. La disposizione appare  quindi  eccedere
lo scopo che si propone, consistente nella tutela dell'ordine e della
sicurezza pubblica sotto il profilo della verifica  di  affidabilita'
dei soggetti cui viene  concessa  la  licenza  di  portare  armi.  Si
ricorda, a questo proposito, che nel  nostro  ordinamento  esiste  un
generale divieto di girare armati, e l'autorizzazione a  portarle  ne
costituisce eccezione la quale deve essere assistita  da  sufficienti
garanzie circa l'affidabilita' nel loro corretto  uso  da  parte  del
titolare della relativa autorizzazione. In particolare la sentenza di
Corte costituzionale  n.  440/1993,  chiamata  a  pronunciarsi  sulla
legittimita' costituzionale delle previsioni dell'art. 11  T.U.L.P.S.
in ordine ai poteri di diniego  delle  autorizzazioni  di  polizia  a
fronte  dell'accertata  insussistenza  del  requisito  della   <buona
condotta>, precisa che la facolta'  di  portare  ed  usare  armi  non
costituisce oggetto di  un  diritto  assoluto,  ma  e'  eccezione  al
generale divieto di girare armati sancito  dall'ordinamento,  e  tale
deroga, per essere giustificata, richiede un  preventivo  e  puntuale
accertamento delle caratteristiche del soggetto richiedente il  porto
d'armi, per acquisire certezza in ordine alla sua idoneita'  al  loro
uso e alla sua affidabilita' morale. Stando  cosi'  le  cose,  appare
certo  rispondente  a  tale  finalita'   effettuare   uno   scrutinio
preventivo sulla vita e i precedenti del richiedente il porto  d'armi
per verificarne l'affidabilita'; non altrettanto, pero',  puo'  dirsi
per un divieto  automatico  e  generalizzato  derivante  da  condanne
penali dallo stesso subite  a  lunga  distanza  di  tempo  e  nemmeno
incidenti direttamente sull'utilizzo delle armi, come accade nel caso
di specie. Ipotizzare l'esistenza di un simile divieto  generalizzato
ed assoluto, senza che all'autorita'  amministrativa  venga  concesso
alcun potere di valutazione discrezionale, appare eccessivo  rispetto
allo scopo della norma, tanto piu' nel caso di specie in cui, durante
il rilevante lasso di tempo trascorso  dal  suo  originario  rilascio
fino al suo diniego, il titolo e' stato sempre rinnovato. 
    In tema di automatismo preclusivo la  Corte  costituzionale,  con
sentenza  n.  202/2013,  si   e'   pronunciata   sulla   legittimita'
costituzionale dell'art. 4 del decreto legislativo 18 luglio 1998, n.
286, nella parte in cui la norma prevede un meccanismo automatico che
impone  all'Amministrazione  competente  il  diniego  di  rilascio  o
rinnovo del permesso  di  soggiorno  allo  straniero  che  sia  stato
condannato per  determinati  reati.  La  Corte  ha  statuito  che  al
legislatore   e'   riconosciuta   un'ampia    discrezionalita'    nel
disciplinare l'ingresso e il soggiorno dello straniero nel territorio
nazionale, in relazione alle esigenze di difesa nazionale e sicurezza
pubblica sottese, e in questo ambito  e'  legittimo  anche  prevedere
casi in cui, a fronte della commissione  di  reati  ritenuti  di  una
certa gravita'  e  particolarmente  pericolosi  per  la  sicurezza  e
l'ordine pubblico,  l'Amministrazione  sia  vincolata  a  revocare  o
negare il permesso di soggiorno  automaticamente  e  senza  ulteriori
considerazioni. In linea generale statuizioni di tal genere non  sono
di per se' manifestamente irragionevoli;  tuttavia  occorre  che  una
simile previsione possa considerarsi rispettosa di un  bilanciamento,
ragionevole e proporzionato ai sensi dell'art. 3 della  Costituzione,
tra le opposte esigenze di tutelare l'ordine pubblico e la  sicurezza
dello Stato  e  regolare  i  flussi  migratori,  da  un  lato,  e  di
salvaguardare  i  diritti  dello  straniero   riconosciutigli   dalla
Costituzione dall'altro. Nel valutare l'adeguatezza del bilanciamento
tra questi valori, al fine del sindacato di legittimita' della norma,
la Corte prosegue rilevando  che  gli  automatismi  procedurali  sono
basati su una presunzione assoluta di pericolosita' e  devono  quindi
ritenersi arbitrari laddove  non  rispondono  a  dati  di  esperienza
generalizzati,  quando  cioe'  sia  agevole  formulare   ipotesi   di
accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a  base  della
presunzione stessa». 
    Nel caso di specie,  al  pari  di  quello  oggetto  del  giudizio
innanzi al Tribunale amministrativo  regionale  Toscana,  da  cui  e'
originata  analoga   (e   precedente)   questione   di   legittimita'
costituzionale, si puo'  facilmente  formulare  quest'ultima  ipotesi
sulla scorta dei dati esperienziali desumibili dagli atti  di  causa:
e' dimostrato che il ricorrente ha ottenuto il primo  rilascio  della
licenza per  esercitare  l'industria  della  riparazione  delle  armi
comuni nell'anno 1996 e i rinnovi si sono susseguiti senza  soluzione
di continuita', fino all'attuale istanza, senza che mai  egli  avesse
dato causa ad alcun episodio connotato dal suo cattivo  utilizzo.  In
tal senso, depone, del resto, anche il rinnovo della licenza di porto
di fucile per  uso  caccia  ottenuto  dal  medesimo  nell'anno  2015,
all'esito di un procedimento che sembrava doversi concludere  con  un
diniego, ma che ha,  poi,  mutato  esito  proprio  in  ragione  degli
apprezzamenti discrezionali di segno  positivo  formulati  sulla  sua
affidabilita'. 
    Ha, inoltre,  sempre  condivisibilmente  osservato  il  Tribunale
amministrativo regionale Toscana che «sotto un profilo piu'  generale
ed astratto, poi, non appare facilmente giustificabile un automatismo
preclusivo che colleghi il diniego dell'autorizzazione a portare armi
alla commissione del reato  di  furto,  il  quale  non  e'  collegato
all'utilizzo delle stesse e che, pertanto, poco ragionevolmente  puo'
essere posto ex se a base del diniego  dell'autorizzazione  medesima.
Tanto piu' appare ingiustificabile l'automatismo  laddove,  come  nel
caso di specie, il richiedente il  porto  d'armi  abbia  ottenuto  la
riabilitazione la quale presuppone che il condannato abbia dato prove
effettive e costanti  di  buona  condotta  al  fine  di  un  giudizio
prognostico sul suo futuro  comportamento  (art.  179,  comma  primo,
c.p.)». 
    A tutte le  su  riportate  considerazioni,  che  il  Collegio  fa
proprie, pare, peraltro, opportuno aggiungere anche quanto segue. 
    L'automatica valenza ostativa di reati come quello che  viene  in
rilievo nel caso in esame, peraltro  di  particolare  tenuita',  pare
anche irragionevole e comunque violativa dei principi di  eguaglianza
e proporzionalita' avuto riguardo  ai  trattamento  decisamente  piu'
coerente con i  valori  di  uno  Stato  democratico  ora  assicurato,
secondo le indicazioni applicative da ultimo  fornite  dal  Ministero
dell'interno con circolare 557/PAS/U/012843/10100.A(1) del 31  agosto
2017, a fattispecie di corrispondente gravita' dall'art. 131-bis  del
codice  penale,  che  consente,  per  l'appunto,  di  «schivare»   le
conseguenze amministrative pregiudizievoli che, per mero automatismo,
continua, invece, a subire chi, come l'odierno ricorrente,  e'  stato
condannato in epoca in cui non era ancora prevista l'esclusione della
punibilita' per la particolare tenuita' del fatto. 
    Al riguardo, il Collegio non puo', in ogni  caso,  trascurare  di
osservare   che   le   indicazioni   fornite    appalesano    viepiu'
l'irragionevolezza dell'ostativita' prevista dalla  norma  sospettata
d'incostituzionalita', in quanto, a  ben  osservare,  il  trattamento
piu'  favorevole  sotto  il  profilo  degli  effetti   di   carattere
amministrativo parrebbe riservato a coloro che, dal  punto  di  vista
temporale,  sono   maggiormente   prossimi   alla   commissione   del
fatto-reato ovvero in sostanza a soggetti rispetto ai  quali  possono
non risultare ancora disponibili apprezzabili ed effettivi  riscontri
in  ordine  all'avvenuto  completamento  del   percorso   rieducativo
intrapreso ai fini della completa reintegrazione nel tessuto  sociale
e della piena accettazione, condivisione e rispetto delle regole. 
    Viceversa, coloro che, come il ricorrente, hanno posto in  essere
una  condotta  illecita  sotto  il  profilo  penale  in  epoca   piu'
risalente, non avendo potuto usufruire  degli  istituti  premiali  di
piu' recente introduzione, sono destinati a continuare a  subire,  in
forza di meri automatismi, conseguenze pregiudizievoli  di  carattere
amministrativo, anche laddove la loro (successiva) condotta  di  vita
sia stata totalmente esente da ulteriori mende e costituisca  di  per
se' prova tangibile di piena affidabilita'. 
    Sempre con riguardo ai parametri costituzionali dianzi  indicati,
non pare nemmeno trascurabile la circostanza che la norma,  per  come
formulata, non consente di valorizzare in alcun modo  la  intervenuta
riabilitazione, sebbene non siano sconosciute all'ordinamento ipotesi
in cui  la  riabilitazione  produce  effetti  che  vanno  al  di  la'
dell'ambito penale. Si pensi ad esempio all'art. 120,  comma  1,  del
decreto legislativo 20 aprile 1992, n. 285,  che  riconosce  espressi
effetti  favorevoli  di  carattere  amministrativo  ai  provvedimenti
riabilitativi,  pur  a  fronte  della   commissione   di   reati   di
significativa offensivita'  e  che,  con  particolare  riguardo  alle
esigenze di salvaguardare la sicurezza della circolazione, potrebbero
indurre  a  dubitare  dell'effettivo  riconseguimento   affidabilita'
necessaria per ottenere il rilascio di una nuova patente di guida. 
    Per le ragioni sin qui esposte, il Collegio, ritenendo  rilevante
e  non  manifestamente  infondata  la   questione   di   legittimita'
costituzionale dianzi prospettata, la  solleva  d'ufficio,  ai  sensi
dell'art. 23 della  legge  n.  87  dell'11  maggio  1983,  e  dispone
l'immediata  trasmissione  degli  atti  alla  Corte   costituzionale,
sospendendo, al contempo, il giudizio in corso. 
    Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e  in  ordine  alle
spese e' riservate alla decisione definitiva.